L'industria musicale non vuole ripetere gli errori del passato. Questa volta, con l'intelligenza artificiale, intende giocare d'anticipo. Le più grandi etichette discografiche del mondo, tra cui Universal Music e Warner Music, sono sedute al tavolo delle trattative con le principali aziende di AI per scrivere le regole prima che il gioco cambi per sempre. La posta in gioco è altissima. L'obiettivo è chiaro: evitare un'altra emorragia di ricavi come quella causata dalla rivoluzione digitale dei primi anni 2000. Chi non ricorda il caos di Napster e LimeWire? L'industria musicale ha imparato la lezione a proprie spese e ora, di fronte all'avanzata inarrestabile dell'IA generativa, vuole dettare le condizioni. Secondo un recente report di AI4Business, le trattative coinvolgono non solo colossi come Google e Spotify, ma anche startup emergenti e controverse come Suno e Udio, già finite nel mirino delle major per presunte violazioni di copyright. È un fronte complesso, dove si mescolano innovazione, affari e battaglie legali. Come pagare per una canzone che non è una canzone? Il nodo centrale della discussione è tanto semplice da enunciare quanto complesso da risolvere: come si remunera l'uso di un catalogo musicale da parte di un'intelligenza artificiale? Le etichette spingono per un modello ispirato allo streaming, basato su micropagamenti per ogni utilizzo. Ma qui sorge il problema. Un'AI non si limita a "riprodurre" un brano. Lo scompone, ne impara lo stile, il ritmo, la melodia, e usa questi elementi per creare qualcosa di completamente nuovo. Come si può tracciare un processo così frammentato e non lineare? La richiesta delle case discografiche è che le società di AI sviluppino una sorta di "Content ID potenziato", un sistema tecnologico in grado di riconoscere quando e come il materiale protetto da copyright viene impiegato, anche indirettamente. È una sfida tecnologica enorme, che richiede trasparenza e collaborazione. Gli artisti, da Taylor Swift ai Coldplay, guardano con attenzione. La domanda che tutti si pongono è se accetteranno che la loro intera discografia venga data "in pasto" a un algoritmo per generare opere irriconoscibili. Il fantasma di Napster e l'invasione dei cloni L'urgenza di trovare un accordo è alimentata da dati allarmanti. Piattaforme come Deezer segnalano che quasi un terzo dei nuovi brani caricati è generato artificialmente. Spotify, dal canto suo, ha dovuto rimuovere circa 75 milioni di tracce "spam" create dall'AI nell'ultimo anno, spesso caricate da bot per incassare royalty in modo fraudolento. Elliot Grainge, CEO di Atlantic Records, ha tracciato un parallelo diretto con l'era di Napster, ricordando come l'industria abbia perso fino al 70% del suo valore. "Abbiamo la responsabilità di negoziare i migliori accordi per i nostri artisti", ha dichiarato, sottolineando che questa volta le etichette non resteranno a guardare. La situazione è paradossale: le stesse startup citate in giudizio per violazione di copyright, come Suno e Udio, sono ora interlocutori chiave. Le etichette sperano che qualsiasi accordo futuro includa anche una forma di risarcimento per l'utilizzo non autorizzato dei loro cataloghi per addestrare i modelli di intelligenza artificiale. Un nuovo ecosistema o il Far West digitale? Le trattative in corso potrebbero plasmare il futuro della creatività musicale. Non si tratta solo di soldi, ma di definire un nuovo ecosistema in cui artisti, etichette e tecnologia possano coesistere in modo equo. Se le negoziazioni avranno successo, potremmo assistere alla nascita di un modello sostenibile che protegge il diritto d'autore senza soffocare l'innovazione. Se invece le parti non troveranno un terreno comune, il rischio è che l'AI continui a espandersi in una zona grigia, un Far West digitale dove le regole non esistono e il valore del lavoro artistico viene progressivamente eroso. La musica è a un bivio: questa volta, chi guiderà la rivoluzione?