L'industria musicale non vuole ripetere gli errori del passato. Questa volta, con l'intelligenza artificiale, gioca d'anticipo. L'aria che si respira negli uffici di Universal Music e Warner Music è carica di tensione e aspettativa. Le due più grandi etichette discografiche del mondo sono al centro di negoziazioni che potrebbero definire il futuro della musica per i decenni a venire. Sul tavolo, accordi di licenza pionieristici con le principali aziende di intelligenza artificiale, un tentativo di mettere ordine prima che il caos prenda il sopravvento. L'obiettivo è chiaro e ambizioso: evitare di replicare il disastro dei primi anni 2000, quando la rivoluzione digitale e la pirateria misero in ginocchio l'intero settore. Come riportato da diverse fonti, tra cui AI4Business, le trattative coinvolgono non solo colossi come Google e Spotify, ma anche le startup che sono sulla cresta dell'onda della musica generativa, come Suno e Udio. Il cuore del problema: come pagare per la creatività? La domanda fondamentale è tanto semplice da porre quanto complessa da risolvere: come si remunera l'uso di un catalogo musicale da parte di un'AI? Le etichette spingono per un modello basato su micropagamenti, simile a quello che regola lo streaming. Ogni volta che un'opera viene utilizzata per addestrare un modello o generare un nuovo brano, scatta una piccola royalty. Perché questo funzioni, però, serve una tecnologia di attribuzione estremamente sofisticata. Pensate a una versione evoluta del Content ID di YouTube, capace di riconoscere non solo una melodia, ma anche frammenti, stili e influenze "digerite" dall'algoritmo. L'AI non si limita a riprodurre, ma scompone e ricompone, creando qualcosa che a volte è irriconoscibile. Tracciare questo processo è una sfida tecnica enorme. Una corsa contro il tempo L'urgenza di trovare un accordo è alimentata da ciò che sta già accadendo sulle piattaforme di streaming. Deezer ha rivelato che quasi un terzo dei nuovi brani caricati è generato artificialmente. Spotify, dal canto suo, ha dovuto rimuovere circa 75 milioni di tracce "spam" create dall'AI nell'ultimo anno. Un'inondazione che rischia di annegare la musica creata da artisti umani e di generare guadagni fraudolenti tramite bot. A complicare il quadro ci sono le battaglie legali. Le stesse major hanno citato in giudizio Suno e Udio nel 2024, accusandole di aver addestrato i loro modelli su musica protetta da copyright senza alcuna autorizzazione. Ora, quelle stesse startup sono sedute al tavolo delle trattative, dove un accordo potrebbe includere anche una sorta di risarcimento per l'uso passato dei repertori. Imparare dalla storia per non essere condannati a ripeterla "Abbiamo già visto questa industria perdere il 70% del suo valore", ha dichiarato Elliot Grainge, CEO di Atlantic Records, paragonando il momento attuale all'era di Napster e LimeWire. La differenza, oggi, è la consapevolezza. Le etichette sanno di avere la responsabilità, e la forza contrattuale, per negoziare accordi che tutelino i loro artisti. Il punto non è fermare la tecnologia, ma governarla. Si tratta di trasformare una potenziale minaccia in un'opportunità, creando un ecosistema in cui l'innovazione dell'AI possa coesistere con il giusto compenso per la creatività umana. La domanda che una fonte interna a una major si è posta riassume perfettamente la sfida: "Prendi l'intera storia della musica, la metti in un frullatore che produce qualcosa di nuovo. La domanda è: gli artisti lo accetteranno?" Queste trattative non sono solo una questione di soldi. Sono un bivio fondamentale per il futuro della cultura. Il risultato deciderà se l'intelligenza artificiale diventerà un nuovo, potente strumento per i musicisti o un concorrente sleale che opera in una terra di nessuno. La musica sta provando a scrivere le sue regole prima che sia l'algoritmo a farlo per lei.