Cinema e finanza, un legame che scotta Polvere da sparo al Festival di Venezia. Durante la conferenza stampa del suo nuovo film, "Father Mother Sister Brother", il regista cult Jim Jarmusch non ha usato mezzi termini. Interrogato sui recenti finanziamenti ricevuti da Mubi, la piattaforma di streaming che ha co-prodotto il suo lavoro, Jarmusch ha gelato la platea: "Sono rimasto deluso e sconcertato da questa relazione". La questione non è di poco conto. Mubi, da sempre considerata un rifugio per il cinema d'autore, ha recentemente chiuso un round di finanziamento da 100 milioni di dollari guidato da Sequoia Capital, uno dei fondi di venture capital più potenti al mondo. Un gigante della Silicon Valley con le mani in pasta ovunque, dall'intelligenza artificiale al tech di consumo. Jarmusch, pur sottolineando che la sua collaborazione con Mubi è iniziata ben prima di questo accordo e definendoli "fantastici con cui lavorare", non ha nascosto il suo disagio. Un disagio che getta un'ombra lunga sul rapporto, spesso opaco, tra arte e alta finanza. Il cuore della controversia: da Mubi alla tech militare Ma perché tanto clamore? Il problema, sollevato da numerosi altri registi in una lettera aperta, risiede nel portafoglio di investimenti di Sequoia Capital. Il fondo, infatti, non finanzia solo piattaforme di streaming o promettenti startup di AI. Tra i suoi investimenti figura anche Kela, una startup israeliana di tecnologia per la difesa. Un legame che, secondo i firmatari della lettera, lega "esplicitamente la crescita finanziaria di Mubi al genocidio a Gaza". Accuse pesantissime, che hanno spinto il CEO di Mubi a rispondere pubblicamente, insistendo che "qualsiasi insinuazione che il nostro lavoro sia connesso al finanziamento della guerra è semplicemente falsa". Eppure, la macchia resta. La percezione è quella di un cortocircuito etico: i soldi che finanziano il cinema indipendente provengono dallo stesso calderone che alimenta l'industria bellica. È un vespaio che mette in luce la complessa ragnatela della finanza globale, dove i capitali si muovono fluidi e indifferenti ai confini tra i settori. Denaro che da un lato supporta la cultura e dall'altro la tecnologia che, direttamente o indirettamente, fa parte di un conflitto. La dura pragmatica di Jarmusch: "Tutti i soldi delle corporation sono sporchi" In questo scenario, la posizione di Jarmusch emerge con un pragmatismo disarmante. "Non sono il portavoce di Mubi", ha chiarito, posizionandosi come un cineasta indipendente che "ha preso soldi da varie fonti per finanziare i miei film". Poi, la frase che sintetizza tutto il paradosso: "Tutti i soldi delle corporation sono sporchi". Questa affermazione, tanto cinica quanto realistica, apre una finestra sulla dura realtà di chi fa arte al di fuori dei grandi circuiti commerciali. La ricerca di fondi è una battaglia costante, un percorso a ostacoli che spesso costringe ad accettare compromessi scomodi. L'alternativa, per molti, è semplicemente non fare il film. La dichiarazione di Jarmusch non è un'assoluzione, ma una constatazione amara. Un ecosistema tech senza confini etici Il caso Mubi-Sequoia, come evidenziato dalla fonte TechCrunch AI, è emblematico di un problema più vasto. Fondi come Sequoia Capital sono i motori dell'innovazione tecnologica, pompando miliardi di dollari in settori all'avanguardia come l'intelligenza artificiale generativa. Sono loro a decidere chi vince e chi perde nella corsa al futuro. Ma il loro raggio d'azione non si ferma all'AI o ai software. Questi stessi capitali, una volta generati profitti, vengono reinvestiti in modo trasversale, finendo per sostenere la cultura, l'arte e, appunto, il cinema indipendente. Si crea così un legame invisibile ma potentissimo: il film d'essai che guardiamo la sera potrebbe essere stato finanziato grazie ai profitti di un'azienda di cyber-security o di un controverso algoritmo di AI. Questo solleva una domanda fondamentale per tutti noi: è possibile consumare cultura in modo "pulito"? Jarmusch sembra suggerire di no. In un mondo così interconnesso, tracciare l'origine etica di ogni euro è un'impresa quasi impossibile. La sua critica non è solo a Mubi, ma a un intero sistema che ha reso l'arte dipendente da una finanza che non si pone scrupoli. Le parole del regista a Venezia non sono solo una notizia di cronaca festivaliera. Sono un campanello d'allarme che ci costringe a guardare oltre lo schermo, a interrogarci sulla provenienza di ciò che amiamo e a fare i conti con la scomoda verità che, forse, un po' di quella "sporcizia" di cui parla Jarmusch finisce per toccarci tutti.